Per quanti anni ancora le risorse di petrolio mondiali riusciranno a soddisfare il fabbisogno sempre crescente di oro nero da parte del nord del mondo?. Ed ancora: le grandi multinazionali petrolifere cosa si inventeranno quando semplicemente il petrolio sarà finito?


Una petroliera a Venezia davanti piazza S. Marco

Fino a quando il mondo potrà avere petrolio a buon mercato? Forse solo per pochi anni, al massimo una dozzina. Poi sarà un privilegio di pochi.

Oggi, il petrolio fornisce il 35-40% dei consumi mondiali di energia, contro il 23% del carbone e il 21% del gas naturale: ne utilizziamo circa 28 miliardi di barili all’anno (1 barile = 159 litri). Questa percentuale è inferiore rispetto a quella del 45% che si aveva nel 1973, al tempo del primo choc petrolifero, perché nel frattempo si è avuto un aumento delle quote di gas naturale e del nucleare. Tuttavia, in termini assoluti si consuma più petrolio oggi che nel 1973, poiché, nel frattempo, i consumi energetici mondiali sono aumentati del 66%.
Le previsioni della Iea (International Energy Agency) dicono che nel 2020 arriveremo a consumarne quasi 42 miliardi di barili.
Ma il problema, sottolineato da un gruppo di geologi ed esperti dell’Aspo (Association for the Study of Peak Oil), è che per garantire questo fabbisogno energetico si dovrà fare i conti con le riserve mondiali di petrolio, per capire se saranno in grado di stare dietro all’aumento della domanda.

Più rilevante ancora è il fatto che il petrolio fornisce il 95% dell’energia utilizzata per i trasporti, il che equivale a dire che questo settore è completamente dipendente dal petrolio. Non va poi sottovalutato che anche la moderna agricoltura intensiva è pesantemente dipendente dal petrolio, sia per il funzionamento dei macchinari che per la produzione di fertilizzanti e pesticidi.

Disegno di un giacimento con impianto di estrazione. Piattaforma petrolifera in mare aperto


Andamento del prezzo del petrolio al barile dal 1º dic 2003 al 23 dic 2004

La fine del petrolio a basso costo
Parlando della questione delle riserve petrolifere mondiali, la tesi corrente è che le riserve note dureranno altri 40 anni ai livelli di consumo attuali, e che gli sviluppi della tecnologia saranno in grado di prolungare ulteriormente tale durata. Di solito, viene anche aggiunto che in passato è già accaduto che venissero sollevati allarmi riguardo ad un possibile esaurimento del petrolio, allarmi poi rivelatisi senza fondamento.

Ma di quanto petrolio disponiamo? Ogni anno si pubblicano diversi rapporti sull’entità delle riserve di petrolio e gas, sia da agenzie governative e internazionali che dalle compagnie petrolifere. Tuttavia ciò non basta ad avere un quadro chiaro delle disponibilità delle diverse fonti di energia, perché le informazioni fornite al pubblico ubbidiscono a criteri politici ed economici. Le compagnie petrolifere, ad esempio, sono interessate a diminuire la stima delle proprie riserve quando si tratta di pagare le tasse, mentre sono interessate a sovrastimarle quando si tratta di raccogliere capitali tra gli investitori. Le associazioni di produttori, come l’Opec, sono interessate a mantenere un equilibrio nel mercato delle quote assegnate ai loro associati, e siccome tali quote sono stabilite in base al rapporto tra produzione e riserve di petrolio nei vari Paesi, tendono a mantenere stabile la valutazione di tali riserve, come se ogni anno venisse scoperto altrettanto petrolio di quanto se ne è venduto. In realtà non è così, e anzi la produzione supera ormai da parecchi anni le scoperte. I dati raccolti dall’Aspo indicano che le scoperte mondiali di petrolio nel 2001 sono state di circa 8 miliardi di barili, compresi i giacimenti in mare profondo, quindi 20 miliardi di barili meno di quanti ne abbiamo consumati. Inoltre le nuove scoperte sono sparse in circa 300 giacimenti, il che significa che si stanno scoprendo riserve di dimensioni relativamente piccole, quasi non convenienti dal punto di vista economico.
Una tendenza, quella di scoprire meno petrolio di quanto se ne consuma, che continua dagli anni ’80.

Il punto non è però quello dell’ammontare delle riserve, pur essendo questo un elemento importante per il nostro ragionamento. Dobbiamo invece chiederci quanti barili di petrolio al giorno saremo in grado di estrarre nel prossimo futuro, cioè quale potrà essere l’evoluzione dell’offerta di petrolio, e fino a quando essa sarà in grado di soddisfare una domanda in costante crescita.

Negli ultimi anni un gruppo di studiosi, alcuni dei quali sono geologi con decenni di esperienza nel settore petrolifero, riuniti nell’Association for the Study of Peak Oil (ASPO), che ha anche una sezione italiana, hanno effettuato una valutazione il più possibile accurata delle riserve di petrolio esistenti sul pianeta. Questa valutazione non è affatto semplice, visto che molti dati non sono pubblicamente disponibili, o vengono alterati per ragioni economiche e politiche.

Le conclusioni raggiunte, che sono state pubblicate su riviste scientifiche di indubbio prestigio come Scientific American [1] e Nature [2], dicono che il mondo è ormai molto vicino ad aver consumato metà delle riserve di petrolio esistenti, e che il famoso picco di capacità produttiva si verificherà intorno al 2010 o al 2015. Per il gas naturale si prevede un analogo picco una decina d’anni più tardi.

Ciò che accadrà quando il picco verrà superato, e l’offerta di petrolio non sarà più in grado di soddisfare una domanda in costante ascesa, è che i prezzi inizieranno ad aumentare bruscamente. È prevedibile dunque che il petrolio a basso costo, che è stato alla base dell’elevato livello di ricchezza materiale raggiunto da una parte dell’umanità nel corso del XX secolo, tra una decina d’anni non sarà più disponibile.

A questa affermazione, che risulta di primo acchito difficile da accettare, gli scettici replicano con una illimitata fiducia nei progressi tecnologici, che certamente consentiranno di scoprire nuovi grandi giacimenti. Eppure, questa fiducia, così radicata in tutti coloro che sono cresciuti in un mondo in cui la tecnologia è in grado di raggiungere obiettivi impensati solo pochi decenni prima, è in questo caso mal riposta. I ricercatori hanno mostrato, ed è confermato anche da rappresentanti di grandi compagnie petrolifere [3], che i ritrovamenti di nuovi giacimenti hanno raggiunto un picco negli anni ‘60, e sono da allora in costante calo. Dal 1980, l’estrazione di petrolio avviene a un ritmo più elevato del suo ritrovamento, e oggi viene trovato un solo nuovo barile per ogni cinque che vengono estratti. Ciò si verifica nonostante i notevolissimi progressi registrati nel campo delle tecnologie per la ricerca dei giacimenti e per il loro sfruttamento. Oggi si riesce a trivellare pozzi anche in mare ad elevate profondità, ma ciononostante i nuovi ritrovamenti sono in calo, e anzi il fatto stesso che si cerchino giacimenti in condizioni così difficili è una conferma delle tesi appena esposte.

Oleodotto in arrivo ad una raffineria

L’idrogeno: una soluzione peggiore del male?
Consideriamo, ora la cosiddetta rivoluzione dell’idrogeno, un concetto che, specialmente dopo l’uscita di un noto libro di Jeremy Rifkin [4], viene da più parti indicato come un mutamento di paradigma capace di risolvere molti problemi legati al consumo di combustibili fossili.

L’idrogeno è effettivamente un combustibile che brucia senza produzione di anidride carbonica, quindi senza dare problemi di effetto serra, e con una minima produzione di inquinanti. Tuttavia, l’idrogeno non è una fonte di energia, in quanto non è disponibile in natura. Esso è soltanto un vettore, come l’elettricità, cioè deve essere prodotto a partire da altre fonti di energia.

In effetti, la caratteristica che rende l’idrogeno interessante è che esso può essere prodotto sia a partire dai combustibili fossili (incluso il carbone) che per mezzo dell’energia elettrica fornita dalle fonti rinnovabili. Quest’ultimo aspetto è quello che ha fatto sì che anche molti ambientalisti abbiano assunto l’idrogeno come elemento importante della loro visione del futuro energetico. In questa visione, tutti guideremo automobili alimentate da idrogeno prodotto da pannelli fotovoltaici o turbine eoliche, senza emissioni di gas-serra e senza produzione di inquinanti.

Non si vuole negare l’importanza delle fonti energetiche rinnovabili per il nostro futuro: esse si devono sviluppare il più rapidamente possibile; un dato confortante è il notevole progresso che sta avendo l’energia eolica, con tassi di crescita del 30% l’anno.

Tuttavia, dobbiamo essere realisti. Di tutti i consumi energetici mondiali d’oggi, il solare, l’eolico e il geotermico forniscono solo lo 0.5% del totale. Nonostante che alcune di queste fonti abbiano oggi tassi di crescita elevati, è improbabile che esse possano nei prossimi decenni fornire nulla più che una quota minoritaria dei consumi totali.

A questo va aggiunta una considerazione di tipo termodinamico: poiché sia il fotovoltaico che l’eolico forniscono energia di tipo pregiato, cioè energia elettrica, è più vantaggioso usare questa energia per gli usi di tipo elettrico, e semmai utilizzare per l’autotrazione il petrolio o il gas così risparmiati, che non produrre idrogeno. Va ricordato infatti che, per una legge fisica fondamentale detta Secondo Principio della Termodinamica: ogni conversione da una forma di energia ad un’altra ha un costo, cioè comporta la perdita di una frazione dell’energia in gioco. Nella conversione da elettricità ad idrogeno, e poi nella trasformazione di questo idrogeno in movimento di un veicolo, viene sprecato il 70% dell’energia elettrica originaria se il veicolo fa uso di celle a combustibile, e addirittura il 90% se esso adopera un motore a scoppio modificato. Viceversa, se l’energia elettrica in questione viene adoperata per azionare il motore di un tornio o di un frigorifero, ne viene persa solo una piccola frazione. Pertanto, fino a quando le fonti rinnovabili non saranno in grado di coprire la domanda per gli usi elettrici, è a questi che devono contribuire, se si ragiona con l’ottica di minimizzare gli sprechi.

Ma allora, perché tutto questo interesse per l’idrogeno? Il vero motivo per cui oggi l’idrogeno gode di tanta popolarità è che esso costituisce un modo di perpetuare il presente modello di trasporto privato basato sul petrolio, ma spostando l’inquinamento dalle città ai luoghi di produzione dell’idrogeno, e quindi eliminando la crescente resistenza che nei centri urbani sta incontrando l’uso indiscriminato dell’automobile. Per citare quanto detto con notevole onestà intellettuale da un importante esponente dell’industria petrolifera: l’idrogeno in realtà non è altro che “petrolio rigenerato”.

Per di più, quando il picco nella produzione di petrolio e di gas verrà raggiunto, l’auto a idrogeno consentirà di proseguire con l’attuale dissennato modello di mobilità attraverso la produzione di idrogeno dal carbone. Quest’ultima prospettiva è veramente terrificante, in quanto si avrebbe un drastico aumento delle già elevate emissioni di anidride carbonica dovute al settore del trasporto, con effetti devastanti sul clima del pianeta.

Conclusioni
Lo scenario qui delineato fornisce una chiara chiave interpretativa per parecchi dei recenti eventi geopolitici. Non c’è dubbio che molti governi, e in particolare quelli i cui vertici sono più legati all’industria petrolifera, siano ben consci della possibilità che entro pochi anni potrebbe non esserci abbastanza petrolio per tutti, nonché del ruolo assolutamente centrale che il petrolio riveste nell’attuale modello di sviluppo, specialmente per la sua rilevanza nel settore dei trasporti.

Paradossalmente, va osservato che la relativa scarsità degli idrocarburi potrebbe rivelarsi la salvezza del genere umano, costituendo una limitazione forzosa delle emissioni di gas-serra e delle conseguenti modificazioni del clima. In quest’ottica, è importante che chi è sensibile a queste problematiche si renda conto che la falsa soluzione dell’idrogeno può rivelarsi uno strumento insidioso per aggirare tali limitazioni.

Volendo schematizzare la situazione in poche parole, la prossima fine del petrolio e del gas a basso costo, l’improponibilità del carbone per i suoi inaccettabili costi ambientali e il limitato sviluppo delle fonti rinnovabili, uniti ai rischi connessi ad un uso massiccio della fissione nucleare, e alla lontananza temporale della realizzazione della fusione, sono tutti fattori che puntano alla necessità di arrestare e possibilmente invertire la crescita dei consumi energetici.

Stante il fatto che una parte non piccola della popolazione mondiale, che vive in situazioni di povertà estrema, ha comunque necessità di incrementare i propri consumi onde raggiungere livelli di vita materiale accettabili, è evidente che la maggior parte dell’onere ricade sui paesi industrializzati.

Ma una reale riduzione dei consumi non può essere attuata solo aumentando l’efficienza con cui si usa l’energia, perché gli aumenti di efficienza sono comunque condizionati da ben precisi limiti termodinamici. Occorre quindi agire sulle cause stesse che stanno alla base del continuo aumento dei consumi, e attuare una fuoriuscita dal paradigma economico corrente, che vede nella crescita continua della produzione di beni e servizi una condizione essenziale per lo sviluppo del genere umano. D’altra parte, vista la stretta correlazione esistente tra consumi energetici e ricchezza materiale, questo cambiamento ha come inevitabile corollario la necessità di instaurare convenienti politiche redistributive a livello planetario.

In mancanza di un approccio di questo tipo, la cui implementazione va iniziata senza ulteriori ritardi, non è difficile prevedere che l’approssimarsi del picco della produzione mondiale di petrolio sarà all’origine di una sempre maggiore instabilità internazionale, che sfocerà in nuove guerre per il controllo delle risorse rimanenti. In quei paesi che non vorranno, o non potranno, cimentarsi in questi conflitti, il forte aumento del prezzo dei combustibili causerà scontri sociali di portata mai vista prima, e potrebbe anche causare una brusca riduzione della produzione agricola. Non è esagerato sostenere che, se non s’inizia da subito a correre ai ripari, la fine del petrolio a basso costo potrebbe essere la causa scatenante di un collasso delle società industrialmente avanzate.

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Il testo della risposta è stato tratto da http://www.martines.org/oltreilpetrolio.html e l’autore è il dottt. Emilio Martines.


Una bella risposta sulle “energie rinnovabili e pulite”:
http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=4036

Riferimenti bibliografici
[1] C. J. Campbell, J. H. Laherrère, The End of Cheap Oil, Scientific American 3, 78 (1998).
[2] C. B. Hatfield, Oil Back on the Global Agenda, Nature 387, 121 (1997).
[3] H. J. Longwell, The Future of the Oil and Gas Industry: Past Approaches, New Challenges, World Energy 5, 100 (2002).
[4] J. Rifkin, Economia all’idrogeno, Mondadori (Milano, 2002).
[5] V. Smil, Storia dell’energia, Il Mulino (Bologna, 2000).