Sto ultimando la mia tesi di laurea in giurisprudenza con un case study sull’inquinamento da onde elettromagnetiche e avrei bisogno di delucidazioni dottrinali sulla visione del rischio e dell’incertezza riguardanti gli EMF nel mondo scientifico, e sulla possibile applicazione agli EMF, alternativamente, di una procedura di Valutazione di impatto ambientale o del principio precauzionale.

La domanda è complessa e la risposta sarà quindi un
po’ articolata, anche perché mi fornisce l’occasione per
trattare diffusamente i vari aspetti della questione.

Introduzione

La questione della possibile pericolosità dei campi
elettromagnetici è emersa nel secondo dopoguerra, come
conseguenza dello sviluppo delle applicazioni di questo
agente fisico, all’inizio soprattutto in ambito militare
(radar e telecomunicazioni).

Successivamente, la diffusione nei Paesi
industrializzati delle applicazioni civili dei campi
elettromagnetici (telecomunicazioni, controllo del
traffico aereo, processi industriali, diagnosi e terapia
medica, per citarne solo alcune) e l’utilizzo di
tecnologie che in qualche modo li producono e li
diffondono accidentalmente nell’ambiente (trasmissione
dell’energia elettrica, per esempio), hanno determinato
un significativo aumento della loro presenza sul
territorio, provocando ben presto (anche a causa della
diffusione non sempre corretta di informazioni da parte
dei media) una reazione di preoccupazione, quando
non di vero e proprio allarme, nella popolazione esposta.

Sul piano sanitario, i primi effetti dannosi riportati
come conseguenza dell’esposizione ad intensi campi
elettromagnetici (cataratta, sterilità) erano di tipo
indiscutibilmente termico, essendo imputabili al
surriscaldamento di alcuni organi bersaglio
particolarmente vulnerabili (cristallino, gonadi). Dal
punto di vista normativo, si delinearono ben presto due
scuole di pensiero. La prima, tipica dei Paesi
occidentali, vedeva in questi effetti termici
l’unico meccanismo di azione dei campi elettromagnetici e
portava quindi a normative miranti a difendere gli
esposti da eccessivo riscaldamento locale o sistemico. La
seconda, diffusa in URSS ed in alcuni Paesi dell’est
europeo, dava credito all’esistenza di una multiforme
casistica di effetti non termici,
consistenti principalmente in disturbi più o meno
soggettivi, ricondotti in genere ad alterazioni del
sistema nervoso che sembravano conseguenti ad una
esposizione prolungata a campi elettromagnetici di
livelli anche molto bassi; questo approccio conduceva a
fissar e soglie di sicurezza notevolmente più basse di
quelle termiche (anche 1000 volte, in termini di
potenza).

Attualmente, essendo fallito qualunque tentativo di
accertare scientificamente e descrivere quantitativamente
gli effetti non termici, non è rimasta praticamente più
traccia di questa seconda impostazione e le norme di
sicurezza emanate dalle varie istituzioni internazionali
si riferiscono unicamente agli effetti termici, o
comunque agli effetti acuti dei campi
elettromagnetici.

Esiste un’altra problematica che la ricerca
scientifica non ha finora potuto dirimere
definitivamente, anch’essa di vecchia data, ma che
recentemente ha riscosso molto interesse nei media
e nell’opinione pubblica: si tratta della possibilità
che le esposizioni croniche ai campi elettromagnetici,
anche di basso livello, possano favorire l’insorgere di
alcune patologie tumorali.

Questa situazione ha finito col generare nella
popolazione una notevole e comprensibile apprensione nei
confronti dei campi elettromagnetici. Tra le diverse
concause di questa apprensione, una delle più
significative è sicuramente rappresentata dal notevole
differenziale esistente tra i limiti di sicurezza
previsti dalle normative vigenti e le soglie a cui
sarebbero associati gli effetti sanitari legati alle
esposizioni croniche. È questo l’aspetto su cui
cercheremo di fare un po’ di chiarezza nel seguito.

Terminologia

Nella letteratura che si occupa di protezione dai
campi elettromagnetici compaiono spesso termini quali
“interazione”, “effetto biologico”
“rischio” e “danno”, usati talvolta
impropriamente, specie nella stampa non specialistica. È
pertanto opportuno spendere qualche parola per intenderci
sulla terminologia.

Quando un organismo biologico (per esempio un
individuo) si trova immerso in un campo elettromagnetico,
ha inevitabilmente luogo una interazione
tra le forze del campo e le cariche e le correnti
elettriche presenti nei tessuti dell’organismo.

Il risultato della interazione è sempre una
“perturbazione” intesa come deviazione dalle
condizioni di equilibrio elettrico a livello molecolare;
per poter parlare propriamente di effetto
biologico
, si deve però verificare una
variazione (morfologica o funzionale) in strutture di
livello superiore (tessuti, organi, sistemi). Un effetto
biologico non costituisce necessariamente un danno:
perché questo si verifichi, occorre che l’effetto superi
la capacità di compensazione di cui dispone l’organismo,
che dipende ovviamente anche dalle condizioni ambientali.

Col termine rischio, infine,
si vuole in genere indicare la probabilità di subire un
danno: in linea di principio, le norme di sicurezza
dovrebbero mirare proprio a proteggere gli individui dal rischio
di subire un danno
a causa dell’esposizione ad un
campo elettromagnetico. Per vedere più chiaramente cosa
ciò significhi, dobbiamo prendere in considerazione i
diversi effetti associati all’esposizione ad un campo
elettromagnetico, cominciando con l’approfondirne la
classificazione in acuti e cronici.

Effetti acuti

Gli effetti acuti dei campi elettromagnetici, che
negli anni passati sono stati largamente studiati su
volontari ed animali da laboratorio, sono per lo più
caratterizzati dall’esistenza di un valore di soglia.
Si tratta di effetti immediati (che si verificano
cioè pressoché immediatamente quando si applica il
campo e terminano altrettanto immediatamente – salvo
eventuali conseguenze permanenti – quando lo si rimuove)
ed oggettivi (si verificano su qualunque soggetto,
salvo al più differenze nel valore di soglia da
individuo a individuo).

Per frequenze fino ad almeno un centinaio di
chilohertz, le più autorevoli normative internazionali
di protezione dai campi elettromagnetici riconoscono
nella densità di corrente indotta nei
tessuti il principale parametro per mezzo del quale
correlare l’esposizione agli effetti biologici acuti che
si manifestano negli individui esposti. Questi effetti
consistono in una “interferenza” delle correnti
indotte con i meccanismi fisiologici della percezione
sensoriale e della attivazione muscolare, per cui
l’esposizione, se sufficientemente intensa, si manifesta
con allucinazioni visive (fosfeni) o tattili
(scosse, formicolii) o con contrazioni muscolari
involontarie.

Per frequenze superiori, gli effetti acuti sono invece
imputabili alla potenza assorbita per unità di
massa
(detta SAR, dall’inglese “Specific
Absorption Rate”) e consistono in pratica nel
riscaldamento locale di tessuti e organi o sistemico
dell’intero organismo.

Vedremo più avanti con maggior dettaglio quali siano
i principali effetti acuti individuati e quali le soglie
a cui si verificano. Per ora osserviamo che in molti casi
ad essi sono associati danni certi (per esempio:
l’esposizione degli occhi ad un fascio di micoonde di
sufficiente intensità provocherà quasi sicuramente la
cataratta, l’induzione di una corrente a bassa frequenza
di sufficiente ampiezza nella regione cardiaca
provocherà molto probabilmente l’insorgenza di
un’extrasistole ventricolare etc). Lo scopo della
normativa, in questo caso, deve evidentemente essere
quello di impedire che il danno si produca
o quanto meno renderne sufficientemente bassa la
probabilità. Ciò si realizza sia evitando (con divieti
e proibizioni) che siano presenti livelli di campo
superiori ai valori di soglia là dove è necessaria o
inevitabile la presenza della popolazione, sia impedendo
l’accesso della popolazione stessa alle zone dove si
rende invece necessario consentire l’esistenza di elevati
livelli di campo elettromagnetico.

Effetti cronici

A causa della loro caratteristica di non essere né
immediati né oggettivi, i cosidetti effetti “a
lungo termine” (conseguenti cioè alle esposizioni
prolungate a livelli di campo elettromagnetico anche
molto bassi rispetto alle soglie acute) possono di fatto
essere indagati solo per mezzo di studi epidemiologici,
nei quali si cerca di evidenziare l’esistenza di una
associazione statisticamente significativa tra
l’esposizione e l’insorgenza di determinate patologie.
Nella maggior parte dei casi, questo avviene confrontando
il livello di esposizione di due campioni di popolazione,
di cui il primo composto da individui affetti dalla
patologia in esame ed il secondo costituito da un analogo
numero di individui sani, il più possibile confrontabili
per ogni altra caratteristica con gli individui del primo
campione. Le molteplici patologie fino ad oggi indagate
con questo metodo possono essere grossolanamente
suddivise in due categorie:

  • patologie con sintomi più o meno soggettivi
    (affaticamento, irritabilità, difficoltà di
    concentrazione, diminuzione della libido,
    cefalee, insonnia, impotenza etc);
  • patologie con sintomi oggettivi ed in genere
    gravissimi (tumori, malattie degenerative).

Tra queste ultime, quella che riveste maggior
importanza, sia per la mole di studi eseguiti che per
l’impatto emotivo che ha sulla popolazione, è
sicuramente la leucemia infantile in rapporto
all’esposizione al campo magnetico a 50/60 Hz generato da
elettrodotti, impianti elettrici ed elettrodomestici.

Non entrerò nella diatriba sulla attendibilità di
questi studi e quindi sull’effettiva portata dei loro
risultati. Voglio invece discutere delle condizioni
necessarie affinché le informazioni fornite dagli studi
epidemiologici possano essere utilizzate per definire
norme di sicurezza.

Mettiamoci pertanto nella condizione ideale – ma ben
lontana dalla realtà – nella quale si suppone che
l’epidemiologia abbia fornito una precisa indicazione
circa l’entità dell’aumento del rischio in relazione al
tasso di esposizione. Si noti, per inciso, che questo
presupporrebbe l’esistenza non di un valore di soglia (di
cui non ha senso parlare in relazione ai tumori, a detta
della maggior parte degli oncologi) bensì di una
cosiddetta relazione dose-risposta.

Evidentemente, in questo caso il livello massimo di
esposizione da includere in una normativa deve essere
determinato in modo da mantenere entro un
predeterminato livello l’incidenza delle patologie
considerate
. Occorre innanzitutto definire
quale sia questo livello: per esempio, l’Agenzia per la
protezione dell’ambiente degli USA (EPA) utilizza un
criterio secondo il quale la presenza di un dato
carcinogeno nell’ambiente deve essere limitata in modo
che dia luogo al massimo ad un caso in più di morte per
milione di individui esposti durante la loro vita. In
altri termini, ogni bambino americano al momento della
nascita deve avere al massimo una probabilità su un
milione di morire a causa dell’esposizione a quell’agente
cancerogeno. Individuato il livello di rischio
tollerabile, questo deve essere combinato matematicamente
con l’incidenza naturale della patologia considerata e
con il rapporto dose/aumento di rischio fornito dagli
studi epidemiologici per ottenere il valore limite
tollerabile.

L’epidemiologia dei campi elettromagnetici non ha
finora evidenziato in modo attendibile l’esistenza né di
un valore di soglia né di una relazione dose-aumento di
rischio. Per questo motivo, come è stato più volte
ribadito (anche recentemente) dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, i dati epidemiologici, sebbene
non possano essere ignorati, tuttavia non costituiscono
una “base utile per l’accertamento del
rischio”, cioè per costruire norme di sicurezza.

Pertanto, tutte le norme di sicurezza emanate dalle
organizzazioni internazionali “a base
scientifica” risultano essere basate solo sugli
effetti acuti.

Ancora sugli effetti acuti: limiti primari e derivati

Nella tabella seguente sono riportate le soglie di
densità di corrente per i principali effetti acuti
non termici
: tra parentesi è indicata la banda di
frequenza interessata; i termini “minimo” e
“tipico” si riferiscono alla variazione da
individuo ad individuo.

Soglia Frequenza Effetto
10 mA/m2 20 Hz Valore minimo per la generazione di fosfeni
(allucinazioni visive)
100 mA/m2 10-400 Hz Valore minimo per la stimolazione dei
recettori nervosi periferici (percezione di
formicolii e sensazioni analoghe)
0.5 A/m2 10-100 Hz Valore tipico per la stimolazione di
contrazioni nella muscolatura scheletrica
0.8 A/m2 10-100 Hz Valore minimo per l’eccitazione di
extrasistole ventricolari.
2 A/m2 10-100 Hz Soglia minima di innesco della fibrillazione
ventricolare con tempi di stimolazione di almeno
1 secondo

Nella prossima tabella sono invece riportate le
principali soglie per gli effetti termici.

Soglia Effetto
0.08 W/kg Limite di sicurezza per l’esposizione della
popolazione
0.4 W/kg Limite di sicurezza per le esposizioni
professionali
1.2 W/kg Valore tipico del calore prodotto
spontaneamente da un organismo umano in
condizioni di riposo (metabolismo basale)
4 W/kg Valore minimo a cui sono stati evidenziati
effetti sperimentali su volontari, in caso di
riscaldamento sistemico
100 W/kg Soglia tipica per danni termici su organi
bersaglio (cataratta, sterilità)

La figura riporta alcune delle soglie di densità di
corrente in funzione della frequenza per i più
importanti effetti acuti:

  rumore elettrico che un tessuto sperimenta a
causa dell’attività elettrofisiologica degli
organi vicini
  generazione di fosfeni per
interferenze sul nervo ottico
  eccitazione delle terminazioni nervose
sensoriali
  eccitazione delle terminazioni nervose
motorie; rischio di extrasistole e di
fibrillazione ventricolare
  effetti termici: valore considerato sicuro
per le esposizioni professionali (0.4 W/kg)

I limti specificati nelle norme di sicurezza non
corrispondono direttamente alle soglie degli effetti
acuti riportati nella tabella e nel grafico precedenti,
ma ne sono inferiori di un margine di sicurezza
(pari di solito a 10 dB), necessario a tenere conto di
(1) eventuali ipersensibilità individuali; (2)
incertezze sui modelli dosimetrici e (3) margini di
errore della strumentazione impiegata per l’accertamento
dell’esposizione.

I livelli così individuati costituiscono i limiti
massimi per le esposizioni professionali,
che si applicano cioè a coloro che hanno a che fare con
campi elettromagnetici nell’ambito della propria
attività lavorativa.

Per definire limiti validi per la “popolazione
in genere
“, tutte le più autorevoli
normative introducono un ulteriore margine di sicurezza
(tipicamente circa 7 dB) per tenere conto di una serie di
fattori (età, stato di salute, coscienza
dell’esposizione, grado di addestramento, sorveglianza
sanitaria) che suggeriscono l’adozione di maggiori
cautele per questa categoria.

Poiché le soglie degli effetti acuti sono note in
funzione dei valori della densità di corrente indotta e
del SAR, queste ultime vengono considerate grandezze
primarie
dalle norme di sicurezza ed i loro
rispettivi valori massimi ammissibili sono considerati limiti
primari
. Essendo però, di fatto, estremamente
difficile misurare i valori delle grandezze primarie
nelle condizioni reali di esposizione (è tutt’al più
possibile calcolarli in condizioni standardizzate e
semplificate), le norme di sicurezza specificano anche i
cosiddetti limiti derivati, cioè i
valori massimi ammissibili delle intensità dei campi in
assenza dell’individuo esposto, grandezze più facilmente
accessibili alla misura diretta. I modelli
dosimetrici
costituiscono gli strumenti
fisico-matematici che permettono di risalire dalle
grandezze derivate a quelle primarie, cioè di stabilire
la distribuzione di densità di corrente indotta o di SAR
in un individuo esposto, una volta che siano note le
condizioni di esposizione e le caratteristiche del campo
elettromagnetico nel teatro espositivo.

Le più autorevoli tra le raccomandazioni costruite
sulla base del procedimento illustrato sono quelle
periodicamente emanate dall’International Commission
for Non Ionising Radiation Protection
(ICNIRP). In
figura sono riportati i limiti di campo elettrico
proposti nell’ultima revisione di queste raccomandazioni
(pubblicata sulla rivista Health Physics, volume 74,
numero 4, aprile 1998) e per confronto quelli previsti da
un recente decreto del Ministero dell’ambiente
(pubblicato sulla G.U. serie generale, numero 257,
3-11-1998).

Entrambe queste normative sono reperibili in forma integrale sul sito
Internet dell’Iroe. Le linee guida ICNIRP possono essere raggiunte a partire
dalla pagina Relevant
documents online
, il Decreto ministeriale dalla pagina dedicata alla
rassegna
delle più significative normative di interesse nazionale sulla protezione
dalle esposizioni ai campi elettromagnetici non ionizzanti
.

  Linee guida ICNIRP aprile 1998, esposizioni
professionali
  Linee guida ICNIRP aprile 1998, esposizioni
della popolazione
  Decreto Ministero dell’ambiente 10 settembre
1998, n. 381, esposizioni di durata inferiore
alle quattro ore