Come può considerarsi “vera” una legge “scoperta” avvalendosi del metodo scientifico “moderno” che, come si sa, si basa sull’osservazione e sull’esperimento? Nell’analisi dei risultati dell’esperimento il soggetto non può essere considerato osservatore ma parte integrante dell’esperimento; allora, mi chiedo e Vi chiedo, “cosa” e “chi” si osserva? Forse l’interazione tra osservatore e osservato, ma allora perché tutte le ipotesi e i modelli che ne scaturiscono vengono poi insegnati come verità assolute?

La ragione è che la
scienza “moderna” ha fortemente ridimensionato
la sua concezione di “verità assoluta”,
riducendola ad un significato puramente utilitaristico.
Mi spiego meglio: è ormai chiaro, fin dalla nascita
della meccanica quantistica, che l’osservatore
influisce, nel corso della misura,
sull’”osservato”, cambiandone lo stato
fisico ed alterandone alcune proprietà. Ciò significa
che è impossibile estrarre informazioni sul fenomeno
“in se e per se” ma dobbiamo accontentarci di
dire cosa accade quando l’osservatore compie una
misura.

Tutto sommato, comunque,
questo è il compito della scienza: fare previsioni sugli
esperimenti futuri. Alla scienza non interessa sapere
cosa accada ad una particella lasciata isolata, ma solo
come si comporti quando entra in interazione col resto
dell’universo; e quand’anche vi fosse un
interesse per la realtà “assoluta”, bisogna
rassegnarsi alla consapevolezza che essa è
irraggiungibile col metodo scientifico.

Per fare un esempio
molto significativo, il principio di indeterminazione
viene insegnato come una proprietà
“intrinseca” delle particelle: due osservabili
coniugate non sono misurabili contemporaneamente
con precisione infinita. Che cosa significa?
Semplicemente che, qualunque cosa si faccia, nelle nostre
misurazioni ci sarà sempre un errore, ma nulla si può
dire in merito a ciò che accada mentre non stiamo
misurando. D’altra parte le grandezze fisiche
sottoposte al principio di indeterminazione sono
significativamente chiamate “osservabili”, nel
senso che l’informazione è acquisita
nell’istante dell’osservazione e non ha neppure
senso chiedersi cosa esse siano al di fuori di questo
momento. La proprietà è perciò “intrinseca”
nel senso che ogni qual volta facciamo della scienza la
troviamo associata alla particella.

La “verità
assoluta” è da intendersi pertanto come segue: nel
corso dell’interazione col resto dell’universo
(e in particolare con lo strumento di misura) un
determinato sistema fisico si comporta sempre secondo una
determinata legge, ovvero, ogni qual volta si ripeta un
certo esperimento, si otterranno i risultati calcolabili
mediante l’algoritmo matematico che la legge stessa
esprime.

Che cosa ci sia “al
di fuori” dell’esperimento, la scienza non è
in grado di dirlo e solo la metafisica può esprimere una
qualche opinione (la quale però, non essendo suffragata
dalla verifica sperimentale, può essere totalmente
erronea!).

Personalmente (ma questa
è una mia opinione, che non pretendo affatto tu
condivida) ho un atteggiamento “scientista” del
problema: penso che ciò che non si possa verificare
sperimentalmente non abbia ragione di essere indagato,
dal momento che non si possono fornire prove sulla
correttezza delle affermazioni, e che dunque
l’atteggiamento più “semplice” (secondo il
rasoio di Occam) e coerente sia ritenere che il problema
non esista affatto.