Questa non è una domanda qualunque, bensì è LA
DOMANDA per quanti si occupano di pericolosità dei campi
elettromagnetici!
Anticipiamo subito una sintesi: alla luce delle
attuali conoscenze scientifiche non è possibile né
dimostrare, né escludere con certezza, che l’esposizione
“cronica” (cioè prolungata per anni) a campi
elettromagnetici anche di “basso” livello
(cioè inferiore ai limiti previsti dalle norme di
sicurezza) possa avere qualche influenza sulla salute.
Chi sostiene essere dimostrata una o l’altra cosa è
probabilmente ignorante oppure in cattiva fede!
Il discorso però è molto vasto ed articolato e
merita di essere trattato con qualche dettaglio.
Non vorrei, innanzitutto, che quanto scritto sopra
generasse la convinzione, talvolta espressa anche nei media,
che sull’elettromagnetismo ed i suoi effetti ci siano
solo tanti dubbi. In realtà ci sono molte certezze, come
per esempio:
- Sono ben noti e consolidati i fondamenti teorici
e tecnici dell’elettromagnetismo e delle sue
applicazioni. - Si è in grado di progettare e costruire
strumenti e di definire procedure per mezzo delle
quali misurare l’intensità del campo
elettromagnetico nell’ambiente con notevole
accuratezza, sicuramente sufficiente per le
esigenze protezionistiche. - È possibile realizzare programmi di calcolo per
mezzo dei quali procedere ad accurate valutazioni
teoriche dell’ampiezza del campo in molte
situazioni tipiche di esposizione. - C’è una buona conoscenza degli aspetti fisici
dell’interazione tra i campi elettromagnetici e
gli organismi biologici, grazie alla quale si
possono realizzare modelli in grado di prevedere
l’intensità delle grandezze fisiche indotte
all’interno di un organismo esposto. - Sono noti da tempo gli effetti acuti delle
esposizioni, sono stati chiariti i meccanismi
alla loro base e ne sono state determinate
sperimentalmente le soglie su un gran numero di
individui. Queste conoscenze sono alla base delle
normative esistenti. - Si sta consolidando anche la conoscenza sulle
possibili conseguenze delle esposizioni croniche
e sebbene – come dicevo sopra – non sia
possibile dire con certezza
se siano pericolose o meno, si è in grado di
quantificare il rischio ipotetico almeno nel caso
più studiato (quello dei campi a bassa frequenza
prodotti da elettrodotti ed elettrodomestici) e –
soprattutto – si è in grado di stimare quali
potrebbero essere le conseguenze sanitarie
globali nel caso si accettassero come
dimostrate le ipotesi più allarmanti.
Effetti acuti
È opportuno spendere una parola per chiarire cosa
siano gli effetti acuti su cui si fondano le
normative. Si tratta delle conseguenze immediate
ed oggettive dell’esposizione ad un campo
elettromagnetico: immediate perché si manifestano
appena si applica il campo e scompaiono quando lo si
rimuove (salvo eventuali danni permanenti), oggettive
perché si verificano su qualunque individuo, salvo al
più variazione nel valore di soglia. Per frequenze fino
a circa un centinaio di chilohertz, esse consistono in
perturbazioni della percezione sensoriale (il soggetto
esposto subisce allucinazioni ottiche dette
“fosfeni” o avverte formicolii o scosse) e
della motilità (si verificano contrazioni involontarie
della muscolatura scheletrica e, nei casi più gravi,
extrasistole cardiache). Alle frequenze superiori,
consistono principalmente nel riscaldamento dei tessuti,
più o meno intenso a seconda dell’intensità del campo,
della frequenza, delle modalità di esposizione etc.
Questi effetti possono essere indagati
sperimentalmente sui volontari con le usuali metodologie
scientifiche; per mezzo di questi studi è possibile
arrivare a identificare i limiti di sicurezza al di sotto
dei quali è del tutto scongiurata l’eventualità di
subire le conseguenze descritte.
Effetti cronici
Del tutto diversa è la situazione relativa ai
cosiddetti effetti cronici, che si
manifesterebbero dopo anni di esposizione e non
necessariamente su tutti gli individui esposti. Si parla
in questo caso di aumento del rischio di contrarre
determinate patologie in conseguenza dell’esposizione ai
campi elettromagnetici. Lo strumento di indagine è
l’analisi epidemiologica (con la quale si confrontano i
livelli di esposizione di due campioni di popolazione,
uno composto da individui sani ed uno da individui
affetti dalla patologia indagata) ed i risultati sono
espressi con linguaggio statistico.
Mentre alle alte frequenze (ripetitori televisivi,
radar, telefonia cellulare) gli studi epidemiologici
compiuti (per altro in numero limitato) non hanno fornito
risultati in grado di giustificare preoccupazioni, nel
caso delle basse frequenze (elettrodotti ed
elettrodomestici), le indagini effettuate sono
numerosissime e sembrano evidenziare (seppure con molte
controversie e contraddizioni) l’esistenza di una
associazione tra esposizione al campo magnetico ed alcuni
tipi di tumori; in particolare, viene spesso citata
l’ipotesi di un raddoppio della probabilità di contrarre
la leucemia nella fascia di età fino a 14 anni. I punti
deboli presenti in molti di questi studi (bassa
significatività statistica, insufficiente
caratterizzazione dell’esposizione, mancanza di riscontri
di laboratorio e di un meccanismo biologico plausibile) impediscono
però di parlare di certezza del rischio, che resta
quindi ipotetico. Inoltre, anche se si considerasse il
rischio come dimostrato, uno studio dell’Istituto
Superiore di Sanità ha dimostrato che le conseguenze
sanitarie globali sarebbero comunque modeste. So che
queste considerazioni possono sembrare ciniche, ma sono
comunque necessarie a chi debba coordinare l’utilizzo
delle risorse di prevenzione sanitaria.
Molti sostengono che, nel dubbio, sarebbe opportuno
comportarsi come se il rischio fosse accertato.
Queste sono considerazioni di politica sociosanitaria che
esulano dall’ambito strettamente scientifico e la mia
opinione vale ovviamente come quella di chiunque altro.
Secondo me, sarebbe opportuno tenere presente una
scaletta di priorità di tutte le possibili
emergenze sanitarie ed ambientali, costruita su elementi
razionali e non sulla base delle mode o di fattori
emotivi e corredata dei dati necessari ad allocare le
risorse disponibili, necessariamente limitate, in modo da
massimizzare i risultati ottenibili in termini di vite
salvate e qualità della vita.
Per saperne di più
E se l’inglese non è un problema: