A supporto delle perplessità del nostro lettore,
va detto subito che questo problema non ammette una risposta netta né
immediata. In effetti, l’integrabilità della funzione citata dipende
da come si decide di definire l’operatore “integrale”: dobbiamo quindi
spendere qualche parola per precisare questo concetto.
L’integrale nasce dall’esigenza
di calcolare l’area compresa tra una funzione e l’asse delle x
in orizzontale e tra due due rette verticali arbitrarie situate alle coordinate
a e b. La più famosa definizione di integrale è
quella che viene insegnata anche nella scuola superiore, cioè l’integrale
di Riemann: l’idea è quella riassunta nella figura 1. In pratica,
dividiamo l’intervallo [a, b] in intervalli più
piccoli che usiamo come base di altrettanti rettangoli; come altezze degli
stessi rettangoli, prendiamo ora il valore massimo e ora il valore minimo
assunti dalla funzione nei rispettivi intervalli, ottenendo così le figure
costituite dai rettangoli viola e dai rettangoli gialli (la mia insegnante
di liceo le chiamava “plurirettangolo esterno” e “plurirettangolo interno”,
ma non ho mai veramente digerito l’ampollosità del termine). Nel
caso in cui le aree delle figure che otteniamo si avvicinino a un valore
comune a mano a mano che si “infittisce” la partizione dell’intervallo
[a, b], questo valore comune deve necessariamente essere
l’area della figura di piano che ci interessa misurare.
Figura 1. L’Integrale di Riemann.
Seguendo questa costruzione, è evidente che la funzione
citata dal lettore non può essere integrabile sull’intervallo [0, 1].
Infatti, comunque si prendano gli “intervallini” in cui si suddivide l’intervallo
[0, 1], in ogni piccolo intervallo saranno compresi almeno un punto
razionale e uno irrazionale: di conseguenza, i valori estremi assunti
dalla funzione su ogni intervallino saranno sempre 0 e 1 e, quindi, l’area
delle due figure “approssimanti” sarà sempre, rispettivamente,
0 e 1.
Molto diversa, invece, è la definizione di integrale
di Lebesgue, di cui cerchiamo di dare un’idea intuitiva senza pretesa
di eccessivo rigore né di completezza; rimandiamo comunque a un
testo di analisi matematica per l’università per tutti i dettagli.
L’idea è quella di cercare un modo diverso per “approssimare” la
funzione tramite funzioni “semplici”, e tale modo è quello di operare
una partizione dell’insieme delle immagini invece che del dominio.
Supponiamo, per esempio,
di voler integrare tra a e b una funzione limitata, cioè
una funzione che assume valori compresi nell’intervallo [m, M].
Possiamo allora considerare una partizione di questo insieme dei valori
in n intervalli [yi-1, yi]
dove i punti yi sono presi in modo tale che
m = y0 < y1 < … < yn = M
e ripartire il dominio in n insiemi D1, …, Dn
tali che i valori di x compresi nell’i-esimo insieme siano
esattamente quelli dell’intervallo [a, b] per cui la
funzione assume valori compresi nell’intervallo [yi-1, yi].
Se ora è possibile conoscere in qualche senso la “misura” ai
di ognuno degli insiemi Di, l’area della regione di
piano in considerazione (che chiamiamo ancora “integrale da a a
b di f(x)”) soddisfa le disequazioni
così che l’integrale esiste, come accade con l’integrale
di Riemann, se “infittendo” la partizione dell’insieme delle immagini
le due quantità a sinistra e a destra della disequazione qui sopra
convergono allo stesso valore.
Il vantaggio dell’integrale
di Lebesgue rispetto a quello di Riemann sta nel fatto che in generale
è molto più facile definire la misura di un sottoinsieme
del dominio di quanto non sia “ingabbiare” una funzione “dentro” e “fuori”
da delle opportune unioni di rettangoli. Sull’insieme dei numeri reali,
per esempio, è definita la misura di Lebesgue, che permette
di valutare l'”estensione” di un ampia famiglia di sottoinsiemi e che
possiede la desiderabile proprietà che la misura di un intervallo
coincide proprio con la sua lunghezza.
Rispetto a questa definizione,
si può dimostrare che la funzione citata dal lettore è
integrabile. È immediato, in effetti, che l’integrale di Lebesgue
della funzione considerata debba essere pari alla misura dell’insieme
dei numeri irrazionali compresi tra 0 e 1 (infatti, deve essere pari alla
somma tra 0 volte la misura dell’insieme dei numeri razionali e 1 volta
la misura dell’insieme dei numeri irrazionali). È possibile, a
questo punto, dimostrare che la misura dell’insieme dei numeri razionali
appartenenti a [0, 1] è 0, perché tale è la
misura di ogni sottoinsieme numerabile dell’insieme dei numeri reali:
allora, la misura dell’insieme dei numeri irrazionali appartenenti a [0, 1]
è pari alla misura dello stesso intervallo [0, 1], cioè
1. L’integrale di Lebesgue da 0 a 1 della funzione in oggetto è
dunque 1.
Mi rendo conto che probabilmente questo risponde solo parzialmente
alla domanda del lettore. In effetti, è lecito anche chiedersi
come si possa affermare che i numeri irrazionali nell’intervallo [0, 1]
siano in qualche senso “più” dei numeri reali. Anche qui la risposta
è tutt’altro che banale e richiede una dettagliata trattazione
in termini di teoria della cardinalità. È infatti possibile
dimostrare che i numeri razionali sono numerabili (per la definizione
di numerabilità e per qualche cenno alla teoria della cardinalità
rimando a una mia precedente risposta)
mentre i numeri reali hanno una cardinalità strettamente maggiore:
da questo (e dal fatto che l’unione di due insiemi numerabili è
numerabile) si deduce che i numeri irrazionali hanno una cardinalità
strettamente maggiore di quella dei numeri razionali e, quindi, che in
qualche senso è ragionevole dire che i numeri razionali sono “meno
numerosi” di quelli irrazionali.