La notazione moderna ∫fdx risale a Leibniz (1646-1716) il quale introduce, in una serie di articoli che vanno dal 1673 al 1684, l'integrale di una variabile y estrapolando al contesto delle variabili continue un operatore di somma (da cui la lettera ∫ che appare come una S allungata) agente su variabili discrete; in altre parole, Leibniz comprende immediatamente il fatto che y= ∫dy, che è una prima forma di quello che noi oggi chiamiamo teorema fondamentale del calcolo integrale. Il passo successivo ora è facile: se y è legata a x da una relazione del tipo y=f(x) allora passando ai differenziali leibniziani possiamo scrivere dy=g(x)dx per una certa g (che coincide con la nostra derivata prima di f ma Leibniz non parla di derivate, termine che arriverà solo con Lagrange) e dunque la relazione y= ∫dy diventa y= ∫g(x)dx che è la notazione che si usa ancora oggi.
Effettivamente, ci sono varie ragioni per cui questa notazione è stata mantenuta, anche se dal punto di vista strettamente matematico va osservato che l'espressione g(x)dx rappresenta una notazione unica, questo almeno a livello di calcolo infinitesimale per funzioni di una variabile reale. Anzitutto, il termine integrando g(x)dx rappresenta, intuitivamente, l'area di un rettangolo di base dx e altezza g(x): integrare l'espressione g(x)dx corrisponde quindi di fatto a sommare tutte le aree di questi rettangoli di spessore infinitesimo, ottenendo l'area della regione piana sottesa dal grafico di g nell'insieme su cui tale integrale viene calcolato. La presenza del fattore dx risulta essere inoltre molto utile per ricordarsi come applicare alcuni teoremi di calcolo integrale: esempio tra tutti il teorema di sostituzione. Ricordiamo l'enunciato preciso di tale teorema.
Teorema. Sia f : [a,b] → R continua e sia g : (c,d) → R di classe C1. Supponiamo che g(c,d)⊆[a,b]. Allora ogni volta che a',b'∈(c,d) sono tali per cui si ha g(a')=a e g(b')=b, si ha anche
∫[a,b] f(y)dy = ∫[a',b'] f(g(x))g'(x)dx.
Come si vede il teorema non è particolarmente agevole da ricordare, ma la presenza del fattore dx nella notazione integrale permette di ricordare facilmente la formula di sostituzione. Infatti, operando formalmente la sostituzione naturale y=g(x) nell'integrale
∫[a,b] f(y)dy
teniamo conto che: y=a diventa g(x)=a, e dunque, ad esempio, x=a'; y=b diventa g(x)=b, e dunque, ad esempio, x=b'; f(y) diventa semplicemente f(g(x)), e infine dy diventa d(g(x))=g'(x)dx, per le regole di differenziazione "alla Leibniz". L'integrale
∫[a,b] f(y)dy
diventa allora
∫[a',b'] f(g(x))g'(x)dx
che è proprio la formula enunciata dal teorema.
Tutto questo accade per l'integrale di una funzione reale di variabile reale, dove quindi dx ha il significato di infinitesimo di lunghezza. Lo stesso significato si attribuisce sostanzialmente in dimensione maggiore di 1. Ad esempio, la notazione utilizzata per denotare l'integrale di una funzione reale definita sopra un dominio E in R2 è
∫E f(x,y)dxdy.
In tal caso dxdy rappresenta l'elemento di area, ed in effetti f(x,y)dxdy intuitivamente rappresenta il volume di un parallelepipedo di dimensioni f(x,y), dx e dy. Purtroppo, in questo caso dxdy non può essere utilizzato per intuire la formula di cambiamento di variabile come nel caso 1-dimensionale. Se x=g(u,y) e y=h(u,v) è una trasformazione di variabili, uno sarebbe tentato di fare
dxdy=(∂g/∂u du+∂g/∂v dv)(∂h/∂u du+∂h/∂v dv)=(∂g/∂u ∂h/∂v+∂g/∂v ∂h/∂u)dudv+∂g/∂u ∂h/∂v du2+∂g/∂v ∂h/∂v dv2
mentre la sostituzione corretta dovrebbe essere, a norma del teorema di cambiamento di variabili che non enunciamo,
|∂g/∂u ∂h/∂v-∂g/∂v ∂h/∂u|dudv
o, per i più raffinati, |det dT|dudv, essendo T(u,v):=(g(u,v),h(u,v)).
La situazione si complica ancora di più se uno invece integra una funzione su uno spazio che non è piatto; trattiamo a grandi linee il caso dell'integrale di superficie di una funzione reale definita sopra una superficie S di dimensione 2 in R3. Se f : S → R è sufficientemente regolare (integrabile è la parola giusta) può essere definito il suo integrale su S denotato con
∫S f(x)dH2(x), oppure ∫S f(x)ds.
In entrambi le notazioni si vede la presenza del termine "differenziale": dH2(x) piuttosto che ds; si tratta in ogni caso dell'analogo del dx leibniziano e rappresenta l'elemento di superficie ovvero un infinitesimo di superficie. L'espressione dell'elemento di superficie si può avere se uno riduce l'integrale di superficie a integrale doppio: ad esempio, se S=F(E), con E dominio in R2 e F : E → R3 parametrizzazione regolare per S, allora
∫S f(x)dH2(x) = ∫E f(F(x)) |∂F/∂u∧∂F/∂v|dudv
essendo ∧ il prodotto vettoriale in R3. L'elemento di superficie dH2(x) si legge quindi come |∂F/∂u∧∂F/∂v|dudv in coordinate (u,v).
Un commento conclusivo è doveroso. Infatti, abbiamo avuto modo di sottolineare che il dx di Leibniz è entrato con prepotenza nel calcolo integrale, nonostante il suo traballante significato. Con la teoria dei limiti di Cauchy del tardo Ottocento il dx va in pensione? No: se Cauchy lo fa uscire dalla porta, la geometria differenziale lo fa rientrare dalla finestra. Sopra una varietà differenziabile infatti (oggetto che generalizza il concetto di superficie ma senza la presenza dello spazio ambiente in cui la superficie è immersa) si considerano le cosiddette forme differenziali, che sono oggetti fatti per essere integrati sulle varietà. Ad esempio, una 1-forma differenziale in R3 è una scrittura del tipo adx+bdy+cdz, essendo a,b,c : R3 → R regolari. Le 1-forme differenziali si integrano su curve tracciate in R3 (leggi varietà differenziabili di dimensione 1) come segue:
∫c adx+bdy+cdz : = ∫(0,1) a(x(t),y(t),z(t)) • (x'(t),y'(t),z'(t))dt
essendo la curva c parametrizzata da t → (x(t),y(t),z(t)), con t ∈ (0,1), ed essendo • il prodotto scalare canonico in R3. Una 1-forma differenziale non è quindi altro che un campo vettoriale in R3 il quale, se integrato lungo una curva, fornisce la circuitazione lungo la curva stessa. Allo stesso modo si possono generalizzare i teoremi di calcolo vettoriale (Gauss-Green, divergenza, Stokes) mediante lo studio di forme differenziali di dimensione maggiore di 1.